IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
        Guye  Talla,  cittadino  senegalese  tratto  in arresto il 27
novembre  2004,  e'  stato  condotto  dinanzi a questo giudice per la
convalida  ed  il  contestuale  giudizio direttissimo in relazione al
reato  di  cui  all'art. 14,  comma  5-ter  del  d.lgs. n. 286/1998 e
successive  modifiche,  perche',  ricevuto  in data 1° settembre 2004
l'ordine  scritto  del  Questore  di Savona di lasciare il territorio
dello  Stato  italiano  entro  il  termine  di  cinque giorni, ivi si
tratteneva   senza  giustificato  motivo  in  violazione  dell'ordine
predetto.
    All'udienza  del  21 gennaio  2005, il difensore dell'imputato ha
sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 14,
comma  5-ter,  del  d.lgs.  n. 286/1998  e  successive modifiche, per
contrarieta'  agli  artt. 3,  27  comma 3  (v.  memoria  illustrativa
depositata  dalla  difesa  in  data  14 marzo  2005) ed il p.m. si e'
associato alla medesima questione. Dall'esame degli atti acquisiti al
fascicolo   per   il   dibattimento  non  pare  possa  profilarsi  la
sussistenza  di  un giustificato motivo all'inosservanza, da parte di
Gueye  Talla  dell'ordine  impartitogli  dal  questore  a  seguito di
decreto  del  Prefetto  di Savona del 16 luglio 2004 emanato ai sensi
dell'art. 13,   comma   2,   lettera   a)  del  d.lgs.  cit.;  ordine
personalmente  notificato  all'imputato  in lingua francese il giorno
1° settembre  2004  ed  in cui si da' atto dell'impossibilita' sia di
eseguire  l'espulsione  mediante  accompagnamento alla frontiera (per
mancanza  di  vettore), sia di trattenere l'imputato presso un centro
di  permanenza  temporanea  (per  carenza  di posti disponibili, come
comunicato  dalla  Direzione  centrale  dell'immigrazione  presso  il
Ministero dell'interno).
    In  ordine all'istanza della difesa, questo tribunale ritiene non
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 14,  comma  5-ter,  del  d.lgs. n. 286/1998 come sostituito
dall'art. 1,  comma  5-bis,  della  legge n. 271 del 12 novembre 2004
(che  ha  convertito  in  legge  con modificazioni il d.l. n. 241 del
14 settembre  2004),  nella  parte  in  cui  commina  la  pena  della
reclusione da uno a quattro anni, per sospetta violazione:
        a)    dell'art. 3    Cost.,    sotto   il   duplice   profilo
dell'irragionevolezza  della scelta legislativa in merito all'entita'
della  pena comminata e dell'ingiustificata disparita' di trattamento
sanzionatorio rispetto a fattispecie analoghe;
        b)  dell'art. 27,  comma  3,  Cost.  perche' prevede una pena
detentiva i cui limiti edittali appaiono, in quanto sproporzionati al
disvalore dell'illecito, del tutto divergenti rispetto alla finalita'
rieducativa del condannato.
    La  questione  assume rilevanza nel presente giudizio poiche', in
caso  di  accoglimento della richiesta di condanna avanzata dal p.m.,
questo  giudice  dovrebbe  infliggere  una pena detentiva che pare in
contrasto con le norme costituzionali sopra indicate.
      In  merito al primo dei profili d'illegittimita' denunciati, si
osserva   che,   sebbene   dal   controllo   demandato   alla   Corte
costituzionale  sia  escluso, ai sensi dell'art. 28 legge n. 87/1953,
«ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento», la
stessa  Corte ha piu' volte precisato che l'esercizio di detto potere
«puo'   essere   censurato,   sotto  il  profilo  della  legittimita'
costituzionale,  soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il
limite  della  ragionevolezza»  (cosi'  Corte cost., sent. n. 409 del
1989;  v.,  altresi'  sentenza  n. 62 del 1986; n. 84/1997; ordinanza
n. 267 del 1999).
    Nel caso in esame, la scelta di inasprire la pena per il reato di
cui  all'art. 14,  comma  5-ter,  del  t.u.  in  tema di immigrazione
(raddoppiando  il  minimo e quadriplicando il massimo originariamente
previsti)  appare arbitraria in quanto non sorretta da criteri logici
e razionali, quale potrebbe essere un recente maggior allarme sociale
determinato  dalla  presenza  sul territorio dello Stato di stranieri
clandestini.
    Ad  avviso  del  giudicante, gli emendamenti apportati in sede di
conversione   del   decreto-legge   n. 241   del   14 settembre  2004
evidenziano   come   il  rigore  sanzionatorio  introdotto,  anziche'
rispondere a mutate esigenze di politica criminale, abbia quale unica
finalita'   quella   di   surrettiziamente   ripristinare   l'arresto
obbligatorio,  la  cui  previsione,  in  relazione  alla  fattispecie
incriminatrice  in esame, e' stata dichiarata illegittima dalla Corte
costituzionale  con  sentenza  n. 223  del  2004.  Al  riguardo  pare
opportuno   ripercorrere  brevemente  l'iter  che  ha  condotto  alle
modifiche   da   ultimo  inserite  nel  testo  unico  in  materia  di
immigrazione.
    Il  decreto-legge n. 241 del 14 settembre 2004, come si legge dal
preambolo,  e' stato emanato sulla base della ritenuta «necessita' ed
urgenza,  a  seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 222
del  15 luglio 2004, di modificare l'attuale disciplina in materia di
espulsioni  di  immigrati clandestini, per assicurare piena efficacia
alle  garanzie previste dall'art. 13 della Costituzione anche per gli
stranieri  per  i  quali  sia  stato  disposto l'accompagnamento alla
frontiera   e,   contestualmente,   prevedere   adeguate  misure  per
assicurare  la  massima celerita' dei provvedimenti di convalida e di
esecuzione delle espulsioni».
    In  attuazione  quanto  deciso  dalla Corte costituzionale con la
sentenza   su  indicata,  il  decreto-legge  n. 241/2004  ha  infatti
previsto,  all'art. 1,  comma 1, la sospensione del provvedimento del
questore   di  allontanamento  dal  territorio  nazionale  sino  alla
decisione   da   parte  del  giudice  di  pace  sulla  convalida  del
provvedimento di accompagnamento alla frontiera.
    Lo   stesso   art. 1   ha  inoltre  sostituito  l'art. 14,  comma
5-quinquies del testo unico in materia di immigrazione (che prevedeva
l'arresto  obbligatorio  ed il giudizio direttissimo sia in relazione
al reato di inosservanza dell'ordine del questore di allontanarsi dal
territorio  dello  Stato  entro  il  termine di cinque giorni, sia in
relazione  al  reato di reingresso in Italia da parte dello straniero
espulso),  facendo venir meno la possibilita' di procedere ad arresto
nei  confronti  degli stranieri inottemperanti al predetto ordine del
questore (v. art. 1, comma 6, d.l. cit.).
    E'  evidente  che  con tale ultima disposizione il legislatore ha
inteso  adeguarsi,  non gia' alla sentenza n. 222 del 15 luglio 2004,
bensi'  a  quella coeva con cui la Corte costituzionale ha dichiarato
l'illegittimita',   per   violazione   degli   artt. 3  e  13  Cost.,
dell'art. 14, comma 5-quinquies T.U. immigrazione «nella parte in cui
stabilisce  che  per  il  reato previsto dal comma 5-ter del medesimo
art. 14,   e'  obbligatorio  l'arresto  dell'autore  del  fatto»  (v.
sentenza  n. 223  del  15 luglio  2004  ove il Giudice delle leggi ha
ritenuto  la  manifesta  irragionevolezza della misura «precautelare»
prevista dalla norma censurata, non essendo la stessa suscettibile di
sfociare,  in  base  al  vigente  ordinamento  processuale,  in alcun
provvedimento  coercitivo. Sul punto si veda la Relazione governativa
al  decreto-legge,  in cui si precisa che «in relazione alla sentenza
n. 223  del 2004 della Corte costituzionale ... il decreto provvede a
rimodulare il testo della norma censurata, escludendo il reato di cui
al comma 5-ter dalla disposizione che impone l'arresto»).
    In   sede   di  conversione  del  decreto-legge  n. 241/2004,  il
legislatore, tra le altre modifiche apportate, ha:
        1)  reintrodotto  l'arresto  obbligatorio  per  la violazione
dell'ordine  del  questore  di  allontanarsi dal territorio nazionale
(salva   l'ipotesi  in  cui  il  provvedimento  di  espulsione  dello
straniero,  destinatario  dell'intimazione  del  questore,  sia stato
emesso  «perche'  il  permesso  di  soggiorno  e'  scaduto da piu' di
sessanta giorni e non ne e' stato richiesto il rinnovo»);
        2)  modificato  l'originario trattamento sanzionatorio per il
reato  suddetto,  stabilendo  la reclusione da uno a quattro anni, in
luogo  dell'originaria  pena  dell'arresto  da  sei  mesi ad un anno,
attualmente  riservata  al  solo  caso  in cui l'espulsione sia stata
decretata  per scadenza del permesso di soggiorno di cui non e' stato
richiesto il rinnovo (cfr. art. 1, comma 5-bis).
    Appare   dunque  evidente  -  nonostante  nel  corso  dei  lavori
preparatori  tali emendamenti siano stati presentati quale attuazione
della  pronuncia n. 223 della Corte costituzionale (cfr., ad esempio,
relazione 1ª Commissione in sede referente del 26 ottobre 2004) - che
solo mediante un adeguamento del limite edittale massimo per il reato
di   inosservanza   dell'ordine   del   questore  a  quello  previsto
dall'art. 280  cod.  proc.  pen. ai  fini dell'adozione di una misura
cautelare  coercitiva  (e,  in  particolare, a quello previsto per la
custodia cautelare in carcere), il legislatore ha potuto reintrodurre
l'arresto   obbligatorio   dell'autore   del  fatto,  che  lo  stesso
decreto-legge  oggetto  di conversione, in ossequio - esso si' - alla
pronuncia  della Consulta, aveva eliminato dal previgente testo unico
in materia di immigrazione.
    La  misura della pena comminata per il reato in questione risulta
in  contrasto  con  l'art. 3  Cost.,  non  solo  perche' priva di una
giustificazione  realmente  connessa  ad  un  mutamento  del fenomeno
dell'immigrazione clandestina (che, attraverso la normativa contenuta
nel testo unico n. 286/1998, s'intende contrastare), ma anche perche'
non  ragionevolmente  rapportabile al tipo di illecito. La violazione
sanzionata  e'  invero un reato di pericolo, la cui incriminazione ha
lo  scopo  di  «rendere  effettivo  il  provvedimento  di espulsione,
rimuovendo  situazioni  di  illiceita'  o  di pericolo correlate alla
presenza  dello  straniero  nel territorio dello Stato» (cosi': Corte
cost.,  ordinanza  n. 302/2004).  E'  pur  vero  che l'art. 14, comma
5-ter,  prevede  un'ampia  cornice  edittale,  si'  da  astrattamente
consentire  l'irrogazione  di  una  risposta  punitiva modulata sulle
singole  concrete  fattispecie. Cio' nonostante, il minimo di un anno
di  reclusione  appare  sproporzionato  per eccesso rispetto ai casi,
quale  quello  in  esame,  in  cui  il  soggetto attivo del reato non
risulta  in concreto socialmente pericoloso (trattandosi di straniero
che,  sebbene  irregolarmente presente in Italia e, per tale ragione,
destinatario  di  un  provvedimento  di  espulsione, risulta privo di
precedenti penali e di pendenze giudiziarie a suo carico).
    Il  principio  di  proporzionalita' tra pena e gravita' del fatto
(recentemente   recepito   nella  Carta  costituzionale  europea:  v.
art. II-109,  comma  3),  come piu' volte precisato dal Giudice delle
leggi,  e'  espressione del piu' generale principio di uguaglianza di
cui  all'art. 3  Cost., la cui osservanza da parte del legislatore fa
si'  «che  il  sistema  sanzionatorio  adempia,  nel  contempo,  alla
funzione  di  difesa  sociale  ed  a quella di tutela delle posizioni
individuali»   (cosi'  Corte  cost.  n. 409/1989;  si  veda  altresi'
sentenza  n. 84  del  1997,  in  cui  la  Corte,  ribadendo  che  «la
valutazione  di  adeguatezza  delle sanzioni penali in relazione alla
gravita'   dell'illecito   spetta   alla   ...  discrezionalita'  del
legislatore,  col limite della non irragionevolezza», ha ritenuto non
fondata   la   questione  di  legittimita'  dell'art. 93  del  d.P.R.
n. 570/1960, poiche' la norma impugnata commina pene determinate solo
nel  massimo  e  non  nel  minimo,  consentendo, dunque, che fatti di
minore  gravita'  siano puniti in concreto con le pene previste dagli
artt. 23 e 24 cod. pen.).
    A  dimostrazione dell'incongruenza del rapporto tra disvalore del
fatto  incriminato  e  sanzione  penale comminata dall'art. 14, comma
5-ter,  vale  altresi'  il  raffronto tra detta disposizione e quella
contenuta   nell'art. 13,   comma   13-bis,   primo   periodo  d.lgs.
n. 286/1998, che parimenti punisce con la reclusione da uno a quattro
anni  il  trasgressore del divieto di reingresso nello Stato italiano
conseguente  ad  un'espulsione  disposta  dal giudice e rispetto alla
quale,  singolarmente,  il  legislatore  del  2004  non  ha avvertito
l'esigenza di inasprire il trattamento sanzionatorio. Eppure trattasi
di  una  condotta  criminosa  piu'  grave rispetto a quella delineata
dall'art. 14,  comma  5-ter,  sia  perche'  implica  un comportamento
attivo  da  parte  dello  straniero gia' espulso, sia - soprattutto -
perche'  realizzata  da  un  soggetto concretamente pericoloso per la
collettivita'  o  che,  comunque,  e'  gia'  stato  raggiunto  da una
sentenza   di   condanna.  Ai  sensi  degli  artt. 15  e  16,  d.lgs.
n. 286/1998,   l'espulsione  viene  infatti  disposta  dall'autorita'
giudiziaria:  1)  a titolo di misura di sicurezza nei confronti dello
straniero,  socialmente pericoloso, condannato per uno dei delitti di
cui  agli artt. 380 e 381 c.p.p.; 2) a titolo di sanzione sostitutiva
di  una  pena  detentiva non superiore a due anni, sempre che non sia
possibile  formulare  nei  confronti  dello  straniero condannato una
prognosi  di  non  recidiva;  3)  a titolo di misura alternativa alla
detenzione  nei  confronti  dello  straniero  condannato  e che debba
scontare una pena, anche residua, non superiore a due anni.
    Appare arduo comprendere la ragione della scelta di riservare una
pena  identica  a fatti criminosi che lo stesso legislatore, solo nel
luglio  2002,  aveva  diversamente  apprezzato sotto il profilo della
lesione  dell'interesse pubblico tutelato, tanto da configurare l'uno
(il ritorno in Italia dello straniero coattivamente espulso a seguito
di provvedimento giurisdizionale) un delitto, l'altro (l'inosservanza
dell'intimazione   del   questore   ad  allontanarsi  dal  territorio
nazionale)  una fattispecie meramente contravvenzionale da punire con
l'arresto da sei mesi ad un anno.
    Un'ulteriore   violazione   del   principio   costituzionale   di
uguaglianza  (che  impone un trattamento differenziato per situazioni
non  omogenee)  e'  ravvisabile ponendo a raffronto le pene comminate
dalla  norma impugnata e quelle comminate dall'art. 13, comma 13-bis,
secondo periodo, che punisce il reingresso in Italia dello straniero,
gia'  denunciato  per  il  medesimo fatto e coattivamente espulso. In
relazione a tale ultima fattispecie incriminatrice il legislatore del
2004 ha per vero inciso sulla pena, limitandosi tuttavia ad innalzare
il  solo  limite massimo edittale (che e' passato da quattro a cinque
anni  di  reclusione), lasciando invece invariato il limite minimo di
un anno. La diversa gravita' delle condotte in esame, anche in questo
caso,  non  era  sfuggita  al legislatore del 2002, che aveva infatti
riservato  alle stesse un trattamento sanzionatorio ben differenziato
sotto il profilo qualitativo e quantitativo. Anche il lieve «ritocco»
apportato,  per  rimarcare  quella  che  il  legislatore non puo' che
continuare a considerare ipotesi piu' grave, non rispetta il rapporto
tra   i   limiti   (minimo   e  massimo)  di  pena,  che  in  origine
opportunamente  distingueva  le  due  fattispecie  incriminatici.  Ad
avviso  del tribunale, appare comunque del tutto irragionevole punire
con  lo  stesso  minimo  edittale  sia  lo  straniero  inottemperante
all'ordine  del  questore,  sia lo straniero che, gia' denunciato per
analogo  reato  (con cio' solo dimostrando una maggiore pericolosita'
sociale), ritorna in Italia dopo esserne stato due volte espulso manu
militari.
    L'entita'   della   pena   comminata   risulta  irragionevolmente
sproporzionata  per  eccesso  non  solo  se  rapportata  alle  scelte
complessivamente  operate  dal legislatore in sede di conversione del
decreto-legge  n. 241/2004, ma anche se raffrontata a quella prevista
in  relazione  a  fattispecie  criminose  analoghe  sotto  il profilo
oggettivo  e del bene giuridico tutelato. Il richiamo va all'art. 650
c.p.  che  punisce l'inosservanza di un provvedimento dell'autorita'.
Lo  scarto sanzionatorio esistente tra le pene previste dall'art. 14,
comma  5-ter,  e  quelle comminate dall'art. 650 c.p. (arresto fino a
tre  mesi  o ammenda) appare difficilmente giustificabile a fronte di
una  condotta illecita sostanzialmente omogenea: l'inosservanza di un
provvedimento emesso dalla pubblica autorita' per motivi di sicurezza
pubblica  o  di  ordine pubblico (ragioni che, ai sensi dell'art. 13,
comma 1,  d.lgs.  n. 286/1998,  legittimano  un decreto di espulsione
dello straniero da parte del Ministro dell'interno) e' infatti punita
in  maniera significativamente piu' severa se autore della violazione
e' un cittadino extracomunitario illegalmente presente sul territorio
nazionale.
    Ne'  varrebbe  obiettare,  per escludere l'irragionevolezza della
scelta legislativa, che le due norme poste a raffronto fanno parte di
distinti   contesti   legislativi,   posto   che   «il  canone  della
ragionevolezza  deve  trovare  applicazione  non  solo all'interno di
singoli comparti normativi, ma anche con riguardo all'intero sistema»
(v. in tal senso: Corte cost., sentenza cit. n. 84/1997).
    La  denunciata  violazione del principio di proporzionalita' lede
altresi'  il  precetto  costituzionale  di  cui  all'art. 27, comma 3
Cost.,   poiche',   come   affermato   dalla   Corte  costituzionale,
«l'adeguamento  delle risposte punitive ai casi concreti - in termini
di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - e' strumento per
una  determinazione  della  pena quanto piu' possibile "finalizzata",
nella  prospettiva  dell'art. 27, terzo comma, Cost.» (sentenza n. 50
del  1980).  Invero, una sanzione non corrispondente al disvalore del
fatto  (nel caso di specie, sperequata per eccesso) sarebbe avvertita
dall'autore  del  reato  come  non  «meritata»  e,  dunque, lungi dal
rieducarlo, lo indurrebbe ad ulteriori atteggiamenti di trasgressione
alla legge.